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Le case minime di Padova: una storia urbana di margini e di lotta

Foto da "Il Mattino” del 23/4/1980: "manifestazione promossa ieri pomeriggio dall'Unione Inquilini"

di Alessandro Menon

Le città sono creature misteriose e affascinanti. Chi attraversa uno spazio cittadino e si immerge in quel mosaico di persone e luoghi che lo compongono, a volte viene colto dalla curiosità di saperne di più sul passato nascosto dei luoghi che osserva. “Chissà com’era qui x anni fa” resta spesso una domanda insoddisfatta e sospesa tra l’asfalto e i lampioni, specie se si esce dai centri “storici” e si entra in uno dei tanti quartieri residenziali periferici costruiti nel secondo dopoguerra italiano, apparentemente tutti simili tra loro e perennemente ammantati di grigiore.

Ma non esiste spazio che non sia “storico”, e di certo non fanno eccezione quei quartieri meno esteticamente gradevoli e più periferici, che possono essere luoghi segnati da forti contraddizioni (sociali, economiche, politiche) di solito risalenti ad un passato sconosciuto. Spesso, sono proprio questi quartieri di case bruttine e grigie a celare storie di grande interesse per comprendere quali cambiamenti abbiano segnato la struttura della società italiana, oltre che i volti delle città. Un nodo centrale di questo mutamento, benché sottovalutato, è costituito dalla storia della casa e dell’abitare come questione politico-sociale. Se pure forse non lo si sospetterebbe, anche nella città di Padova questa tematica è stata lungamente al centro di confronti e lotte accese. specialmente sul finire degli anni Settanta del secolo scorso, quando le efficaci proteste dei residenti delle “Case minime” determinarono la caduta di un sindaco e provocarono un significativo cambiamento nelle politiche sociali dell’amministrazione comunale, ottenendo che il diritto alla casa e all’abitare ricevessero – dopo decenni – le attenzioni dovutagli.

Le origini pre-1945

Per capire le radici storiche della questione abitativa nel suo complesso vanno sottolineate due tendenze storiche, una nazionale e l’altra più locale, dalla lunga durata.

La prima è il perdurante protagonismo, nell’intero settore delle politiche sociali, del Ministero dell’Interno, il quale ha trattato i diritti sociali degli italiani principalmente come un problema di ordine pubblico “dall’Unità sino agli anni Settanta”.[1] Per ciò che riguarda l’intervento pubblico nel settore dell’edilizia abitativa, la fondazione dell’Istituto Autonomo Case Popolari di Padova, avvenuta solo nel 1920, costituisce un buon esempio di questo approccio: in essa fu centrale il ruolo del prefetto Edoardo Verdinois, che fece appello alle varie forze cittadine perché finanziassero l’istituto in base a “un alto principio di solidarietà sociale”. Tra gli enti finanziatori spiccano La Banca Antoniana e vari aristocratici locali, a sottolineare la valenza di ordine pubblico che le diverse espressioni della classe dirigente locale attribuivano al problema abitativo.[2] Anche gli obiettivi del consorzio “Case minime” di Padova sorto nei primi anni del secondo dopoguerra, come vedremo a breve, seguirono coordinate di fondo molto simili.

La seconda è la lunga storia degli “sventramenti selvaggi” e ristrutturazioni urbanistiche forzate (che vanno sempre a braccetto con forme di ingegneria sociale) condotte dalla classe dirigente della città. Questi interventi cominciarono ancora prima della formale presa di potere del regime fascista, giustamente rinomato per la sua aggressiva politica urbanistica. Già tra il 1919 e il 1922, infatti, il Consiglio Comunale di Padova approvò un piano urbanistico particolarmente controverso, poi attuato negli anni successivi: nell’antico quartiere di Santa Lucia vennero demoliti centinaia di alloggi (preventivamente espropriati in cambio di un misero compenso) nei quali, secondo le stime, vivevano quasi 2.000 persone.

Foto a p. 28 della Rivista comunale dell’attività cittadina del 1928

Si trattava di decine di famiglie appartenenti alle classi popolari che furono espulse dal centro e vennero destinate in parte alle case Iacp del quartiere Palestro (allora dedicate a Vittorio Emanuele III, oggi ai Caduti della Resistenza), in parte a “case ultrapopolari e baracche” descritte come “copie conformi delle baracche di guerra e che danno povero alloggio a due o tre famiglie ciascuna”.[3] Sulle macerie delle loro abitazioni demolite le ricche famiglie di edili padovani poterono costruire e mettere a rendita appartamenti e uffici di lusso. I nuovi palazzi, infatti, sarebbero stati costruite su terreni il cui valore era nettamente aumentato proprio dal nuovo impianto urbanistico dell’area voluto dall’amministrazione pubblica (dunque finanziato con le tasse della collettività), il che attirò imprese interessate ad investire in un’edilizia più costosa e redditizia. E poterono farlo del tutto indisturbati, visto che gli impresari avevano avuto l’accortezza di riunirsi in un’azienda costruita appositamente allo scopo, la SAPE (Società Anonima Padovana Edilizia), che ricevette l’appalto in esclusiva dal Comune.

Fin dai primi anni Venti, dunque, forti interessi economici e politici intorno al mattone provocarono interventi urbanistici a favore della speculazione privata che provocarono l’allontanamento forzato dal centro storico delle classi popolari. Nello stesso periodo, in una città che contava oramai oltre 100.000 abitanti, la spesa per il finanziamento di case popolari ed il patrimonio edilizio dello Iacp padovano rimase del tutto insufficiente: nel 1937 l’ente provinciale disponeva di appena 690 alloggi, per un totale di 2.463 vani abitabili.

Dopoguerra e Ricostruzione

La cronica mancanza di abitazioni decenti ed economiche per le classi popolari fu ulteriormente inasprita dalle distruzioni belliche. Nel 1946, alla conta dei danni, a Padova le case rase al suolo erano 950, e altre 1400 risultavano danneggiate pesantemente. Altre stime parlano di almeno 1.500 case distrutte, concentrate soprattutto nel quartiere nord dell’Arcella, preso di mira dagli Alleati perché qui si trovavano importanti industrie produttive; certo è che nell’immediato dopoguerra furono molte migliaia i padovani che dovettero sperimentare condizioni abitative drammatiche, e lunghe file di cittadini affollano gli uffici del Commissariato straordinario provinciale agli alloggi in attesa di ricevere una casa.

La classe politica dell’immediato dopoguerra dovette confrontarsi, tra le numerosissime sfide che contrassegnarono la Ricostruzione, anche con un’emergenza abitativa di lungo corso, in un paese già cronicamente carente di alloggi in cui milioni di persone vivevano in sistemazioni inadeguate e sovraffollate. Il censimento dell’Istat del 1951 restituisce le dimensioni del drammatico disagio abitativo: sul piano nazionale l’indice di affollamento corrispondeva mediamente a 1,39 persone per stanza, con punte di 2 persone in media per stanza in Puglia, Calabria e Basilicata. Ben 220.000 famiglie vivevano in “abitazioni improprie” e cioè baracche, cantine, perfino grotte (nella sola Roma vivevano così oltre 100.000 persone). Per contenere le ripercussioni sociali dell’inflazione, nel 1947 il governo De Gasperi istituì addirittura il “blocco degli affitti” stipulati tra privati prima di quell’anno, misura che venne periodicamente rinnovata (anche se in forme sempre più attenuate) fino al 1978. Il fabbisogno di abitativo complessivo dell’Italia dell’immediato dopoguerra è stato stimato intorno alla colossale cifra di dieci milioni di stanze.

Gli anni della ricostruzione post-bellica aprirono perciò possibilità di profitto enormi per gli impresari del mattone. Questi ultimi poterono operare in un contesto di edificazione rapidissima e “selvaggia”, che in molte città toccò punte di abusivismo parossistiche e fu al centro di clamorosi episodi di corruzione (già nel 1963 il caso di Napoli fu immortalato dal celebre film di Francesco Rosi Le mani sulla città). È vero che si rispose ad una fame di case molto diffusa, ma l’offerta non seguì la struttura della domanda, anche perché le politiche pubbliche sull’abitare favorirono nettamente la costruzione di alloggi di proprietà per la classe medio-alta. I governi del dopoguerra seppero così fare dell’accesso di massa alla casa di proprietà un formidabile fattore di stabilizzazione politica e sociale, oltre che un affare estremamente redditizio per speculatori, professionisti e palazzinari. Tanto è vero che la proprietà privata fu l’orizzonte che ispirò anche il più grande investimento pubblico della storia repubblicana, il piano Ina-Casa (1949-1963) fortemente voluto dal ministro democristiano Amintore Fanfani: quasi il 70% dei 355.000 alloggi costruiti dallo Stato (e finanziati anche con una tassa sulle buste paga dei lavoratori dipendenti) sono state concessi a riscatto agli assegnatari, in linea con lo slogan democristiano di voler fare degli italiani “non tutti proletari, ma tutti proprietari”.

Lo sviluppo economico-industriale degli anni Cinquanta e Sessanta che stava investendo l’Italia del secondo dopoguerra (benché in modo assai diseguale tra Nord, Centro e Sud), trovò interpreti particolarmente ambiziosi nella classe dirigente padovana. Il mito della “Milano del Veneto”, infatti, lanciato proprio allora da esponenti locali della Democrazia Cristiana e appoggiato da un vasto blocco sociale di imprenditori e professionisti, immaginava una Padova che da centro universitario e commerciale di sarebbe espansa fino a diventare un grande polo industriale e finanziario. Questa idea di modernità “milanese” stava anche alla base della creazione della Zona Industriale di Padova, la cui storia è stata riscostruita qui su LIES da Gianni Belloni. Anche quella trasformazione del territorio passò dagli espropri forzati di contadini e residenti, che tra 1957 e primi anni Sessanta si organizzarono a loro volta in consorzio per contestare le modalità e il calcolo del valore di terreni e proprietà che (non) veniva riconosciuto loro al momento del calcolo dell’indennità.

La stabilità e la solidità della classe dirigente padovana del secondo Novecento è ben esemplificata dalle lunghissime permanenze di tre figure nei luoghi apicali del potere urbano: il rettore Guido Ferro (in carica dal 1951 al 1968), il vescovo Girolamo Bortignon (in carica dal 1949 al 1982), e infine il sindaco Cesare Crescente (ininterrottamente primo cittadino tra il 1947 e il 1970). Una costante di lungo periodo che contrassegnò la politica locale fu lo strapotere di quello che venne definito il “partito del mattone”, proliferato “sul velluto” di questo compatto sistema di potere cristiano-moderato.[4] Fin dai primissimi anni della Ricostruzione, un variegato gruppo di interessi composto da geometri, ingegneri, professionisti, imprenditori edili (tra i quali spiccavano le famiglie Schiavo e Rossetto) ed esponenti della finanza e dell’industria locale trovò nel sindaco Crescente un affidabile punto di riferimento.

Contrariamente a quanto predisponeva il Piano Regolatore Urbano di Padova, presentato in Consiglio Comunale nel 1953 dal famoso urbanista Luigi Piccinato, la tendenza alla speculazione edilizia e agli sventramenti indiscriminati non venne affatto arginata. Anzi, nelle parole di Lorenza Perini:

Come a Roma, anche a Padova si stabilisce un “piano delle grandi chiacchiere”, affidato a grandi nomi dell’urbanistica, discusso e approvato dalla politica con grande ufficialità, il quale però, appena possibile, viene con massima disinvoltura disatteso a favore di un “piano ombra”, già pensato per essere messo in atto a sostegno dei soliti vecchi e grandi interessi privati, e veicolato dalla burocrazia cittadina.[5]

Alla fine degli anni Cinquanta furono così tombinati vari canali che scorrevano nel centro storico e venne anche abbattuta una gran parte dell’antico quartiere Conciapelli. Il caso forse più clamoroso ed emblematico della gestione urbanistica del tempo fu quello del Palazzetto Arnhold di Dannenberg, risalente al Cinquecento e demolito nel 1961 nel giro di una sola notte per fare spazio al basamento di quello che doveva essere il “grattacielo più alto” del Nord-Est, simbolo della moderna Padova dei servizi. L’azienda Grassetto, proprietaria dell’immobile in corso Europa, aveva versato a mo’ di “compensazione” 5 milioni di lire per il restauro della prestigiosa abbazia di Santa Giustina.[6]

Tombinamento del naviglio interno e veduta del quartiere Conciapelli verso l’omonima via, oggi Largo Europa, 1956 – Fondo fotografico dell’Archivio generale del Comune di Padova

L’espansione cittadina fu modellata quasi esclusivamente per dar corpo al sogno borghese della proprietà privata della casa, primo e irrinunciabile segno di conferma del proprio status sociale, oltre che ambito bene-rifugio. Allo stesso tempo, il piano Ina-Casa aveva costruito in città solo poche centinaia di case di proprietà pubblica, a fronte di oltre 30.000 richieste di alloggio popolare pervenute alle varie istituzioni della provincia nel decennio 1951-61.

È nel fervore della Ricostruzione che prese forma anche l’intervento delle “Case minime”, una delle molte e disorganiche riposte introdotte per tamponare l’emergenza sociale e politica costituita dalla mancanza di case nell’immediato dopoguerra, ma poi trascinatasi per più di un trentennio. Essa è un chiaro esempio dell’approccio con cui la politica locale affrontò la questione del diritto alla casa per i/le cittadini/e in condizioni più disagiate, persone prive di un tetto e per le quali il mercato privato era assolutamente fuori portata. Ancora nel 1950 per molte famiglie la condizione abitativa in città era drammatica, come il democristiano Luigi Gui ricordava in Consiglio comunale:

Ci sono dei poveri esseri umani che vivono nelle nostre mura in via Citolo da Perugia in buche, grotte scavate nella barriera euganea, altri vivono nei locali diroccati dell’Aviazione. Sono casi particolarmente pietosi, anche in occasione dell’Anno Santo, non solo per l’aspetto morale ma anche per l’interesse e il decoro della città e sono di particolare disonore per la nostra città.

Durante quella stessa riunione il sindaco, dopo aver ipotizzato di lanciare una raccolta fondi per risolvere il problema grazie alla “carità pubblica”, aggiunse:

Bisogna studiare il problema in questi termini modesti per tirar fuori quella gente dalle tane dove vivono, sono creature umane e hanno il loro diritto anche loro, anche se sono dei disgraziati, dei miserabili, hanno la necessità di avere protezione, di avere un tetto. […]. Qui si tratta di un’opera di beneficenza e il Comune potrà contribuire, ma non assumersi tutto l’onere sulle spalle.[7]

Col dichiarato intento di venire incontro alle famiglie completamente prive di mezzi di sussistenza nacque allora il “Consorzio Case minime”, dal profilo amministrativo incerto, diviso tra Comune, Camera di commercio, alcuni istituti bancari e Curia vescovile. Fondato nel 1950, esso fu finanziato col concorso di contributi “spontanei” versati da un’accozzaglia di enti pubblici e privati, tra cui banche, impresari edili e perfino alcuni titolari di distributori di benzina. Che a tutti questo soggetti fosse improvvisamente spuntata una coscienza sociale (o fossero caduti preda di uno slancio di disinteressata carità cristiana) sembra poco credibile, e Angelo Ventura ha parlato esplicitamente di una forma di do ut des tra esponenti politici della giunta Crescente e affaristi in cerca di sanatorie edilizie o autorizzazioni pubbliche.[8] Un protagonista della scena politica padovana della generazione successiva, Settimo Gottardo, ha fornito a chi scrive una definizione ancora più specifica:

“Era una tangente di beneficenza. Mi fai costruire un piano in più e in cambio l’altro dava [i soldi] anche volentieri […] Ma era paternalistico, non reggeva su un ragionamento di diritto.”

Gli alloggi costruite secondo i criteri delle case minime (fatte con materiali di risulta, a cui spesso mancavano addirittura le fondamenta, senza riscaldamento e piene di muffa) erano quasi 300 a metà degli anni Cinquanta, arrivarono ad essere ben 670, tutti situati in zone estremamente periferiche: via Maroncelli e via Boscardin (nella zona operaia e popolare in cui allora avevano sede le officine meccaniche Stanga), via Chiesavecchia vicino al ponte di Bassanello, via Perugino a Pontevigodarzere.

Foto delle case minime su “Il Mattino di Padova” del 10/03/1980

Esse sono perfettamente inquadrabili nell’approccio ideologico che ha costituito una costante delle politiche abitative italiane della gran parte del Novecento: una visione assistenzialistica e pietistica dell’intervento pubblico, che vede nell’abitare più che altro uno strumento tramite il quale garantire un ordine politico e morale della società, non un diritto umano da garantire universalmente. Una volta rientrata l’emergenza più pressante e tolte le persone dalle “tane”, infatti, le istituzioni cittadine si disinteressarono rapidamente della loro sorte, e da semplice soluzione temporanea le casette finirono col trasformarsi in residenze permanenti e definitive. Anzi, le case finirono con l’essere utili “parcheggi” per contenere anche le famiglie esiliate dal centro storico a causa dei suddetti sventramenti degli anni Cinquanta. Questi luoghi marginalizzati furono spazi di incubazione di un forte malessere sociale, un malessere che fu alimentato dallo stridente contrasto con il diffondersi di più elevati standard di vita (già raggiunti o solo ambiti) dell’Italia in piena crescita, che aveva nell’accesso di massa a una casa dignitosa un pilastro sempre più irrinunciabile.

Dal ‘68 agli anni Ottanta: mobilitazioni, occupazioni e vittorie

Tra le iniziative di contestazione dal basso che fiorirono negli anni dell’”azione collettiva” apertisi col Sessantotto, il movimento per la casa è stato addirittura definito “l’iniziativa di base più importante” in assoluto. La causa prima del malessere sociale da cui tale movimento mosse è di certo identificabile nell’urbanizzazione caotica e rapidissima del ventennio precedente. Questa non era stata accompagnata né da adeguati piani regolatori né da grandi investimenti sull’edilizia popolare, e nel breve periodo non poteva permettere una sana e pacifica integrazione urbana. Una conseguenza importante di una politica urbanistica tutta sbilanciata a favore della speculazione edilizia e dei ceti medi ricadeva sugli affitti, tendenzialmente alti anche all’epoca: nel 1970, in media il 17% del reddito di una famiglia italiana era assorbito dal pagamento dell’affitto della propria abitazione, una cifra che arrivava al 35% del reddito familiare frutto di lavoro dipendente, contro il 7% in Germania federale ed il 6,3% in Francia.[9] In più, nel 1978 venne abolito il blocco dei fitti ed entrò in vigore il cosiddetto “Equo canone”, una legge votata sia dalla DC che dal PCI che avrebbe dovuto rendere più equo ed uniforme il mercato immobiliare, ma che come effetto immediato generò un aumento complessivo dei canoni d’affitto e moltiplicò il numero degli sfratti.

Anche nella Padova a maggioranza cattolico-moderata, il decennio apertosi col Sessantotto vide un grande proliferare in città di movimenti e nuove (o rinnovate) forze politiche e sociali, al punto da diventare un punto estremamente “caldo” della geografia politica italiana. Un ruolo fondamentale fu svolto dai gruppi femministi, che in città furono numerosi, variegati e radicali. Essi dettero importanti contribuiti teorici per una critica sostanziale dell’organizzazione della sfera domestica, e specialmente al rapporto tra donne ed abitare. La casa come luogo della riproduzione sociale, il lavoro domestico come misconosciuto asse portante della società capitalista furono linee teoriche dirompenti e molto dibattute, e restano ancora oggi punti di riferimento preziosi per espandere lo sguardo di tutte le scienze sociali. In particolare, il gruppo Lotta Femminista guidato da Mariarosa Dalla Costa già nel 1972 elaborò la proposta di scardinare l’oppressione femminile a partire dal pagamento di un salario domestico alle casalinghe. Più in generale, in tutte le città d’Italia la componente femminile delle mobilitazioni per il diritto all’abitare fu importantissima: in prima linea nei cortei, nei picchetti, negli scioperi c’erano spesso donne, dalle “appartenenze” politico-sociali anche molto diverse.

“Tiburtina 1977”, fotografia di Tano D’Amico: http://www.arengario.it/tano/pdf/2011-lotta-per-la-casa.pdf    

Nella città del Santo la lotta di chi risiedeva nelle case minime fu condotta dall’Unione Inquilini, organizzazione dall’anima “movimentista” e dai metodi battaglieri che si contendeva la guida di tante mobilitazioni sulla casa col SUNIA, sindacato tradizionale legato alla Cgil e al Partito Comunista. L’UI venne fondata a Padova nel 1977 da Cesare Ottolini, poi sindacalista di lungo corso e oggi attivo nell’International Alliance of Inhabitants, che racconta così le ragioni (anche personali) di quegli inizi:

“Il tema della casa, come il tema dei trasporti, mi toccava direttamente… Perché cominciando a diventarmi stretta la famiglia, non eravamo a quel tempo abituati a stare in famiglia… Si voleva andare via, anche per conflitti… Si doveva fare qualcosa, e [l’Unione Inquilini] non c’era ancora a quel tempo qui a Padova. L’abbiamo messa in piedi noi, con un ‘attività di consulenza in un malfamato baraccio, e poi con molta inchiesta, un gruppo di compagni, di giovani. Insomma, andare nei quartieri popolari.”

A partire dal 1979, il neocostituito “Comitato di lotta inquilini case minime” diede avvio ad una mobilitazione decisa con assemblee, petizioni, inchieste dal basso e articoli di denuncia. L’Unione Inquilini diede avvio ad una serrata campagna stampa per denunciare alla cittadinanza le condizioni inaccettabili in cui versavano le case minime. In particolare, “Il Mattino di Padova” garantì alla mobilitazione una copertura vasta e favorevole, garantendogli anche una rubrica fissa chiamata “Tribuna inquilini”. Sulla rubrica del 9 dicembre 1979, ad esempio, si legge quale fosse la risposta di Merlin, da poco eletto sindaco e a guida di un’amministrazione di centrodestra, alla petizione di una famiglia di inquilini delle case minime inviata all’amministrazione comunale:

“Egregio sig. Vania, le comunico che in data odierna ho scritto al presidente dello Iacp perché veda la possibilità di assegnarle un alloggio. Con distinti saluti.” Firmato avv. Luigi Merlin. Questa lettera, inviata in data 13/7/79 al sig. Vania Gianfranco e fattaci pervenire dallo stesso, è il classico esempio della politica della casa perseguita dall’amministrazione comunale di Padova: paternalismo e assistenzialismo, quando non si tratta anche di clientelismo spicciolo, di fronte all’enormità sociale del problema casa.

Nelle parole di Laura B., che all’epoca dei fatti aveva solo 9 anni e dal 1975 viveva con la famiglia nelle case di via Maroncelli, le dure condizioni abitative sono ben impresse nella memoria:

la situazione là, alle case minime, era diventata insopportabile, perché, a parte, vabbè, non c’era neanche l’acqua calda. Cioè, non c’era l’acqua calda e non c ‘era neanche riscaldamento. Avevamo una stufa che era a kerosene, dove sulla stufa e poi con la bombola scaldavamo le pentole dell’acqua, ci si lavava con i catini. Ecco, e a corredo di tutto quello, hanno iniziato ad arrivare dentro casa, dalla turca venivano su i topi.

La vertenza trovò nella giunta guidata dal democristiano Luigi Merlin una controparte che formalmente si mostrava aperta al dialogo, ma che esitava a prendere misure concrete, e che si rifiutava di requisire alloggi in cui far risiedere temporaneamente le famiglie con più forti difficoltà economico-sanitarie, come invece chiedeva l’UI. Tra manifestazioni, assemblee e incontri con le autorità, la dialettica per trovare un tetto degno si fece rapidamente serrata.

La sera del 28 marzo 1980, alcune decine di uomini, donne, anziani e bambini dei Comitati di lotta interruppero il consiglio comunale per costringere la giunta a discutere del diritto dei presenti ad una casa decente; per tutta risposta il sindaco chiamò la Celere e fece sgomberare la sala con la forza. Vennero brutalmente picchiate anche alcuni consiglieri e consigliere comuniste che si erano frapposte tra le famiglie e i poliziotti. La reazione della sinistra padovana, ma (in parte) anche degli esponenti del Partito Repubblicano che sostenevano la giunta, fu unanime nel condannare il gesto e chiedere le dimissioni di Merlin. Tre giorni dopo una manifestazione di migliaia di persone, convocata anche dal PCI, attraversò le strade della città in solidarietà con gli inquilini malmenati. Nell’arco di un paio di giorni emerse come in Consiglio comunale fosse venuta a mancare la maggioranza, e la giunta Merlin dovette dimettersi.

Ma, nonostante la grande mobilitazione ed i numerosi incontri sul tema casa (svolti sempre con gli inquilini fisicamente presenti in Consiglio) che costellarono l’agenda del nuovo sindaco Bentsik e del suo assessore alla casa Settimo Gottardo, le richieste dei Comitati di lotta non vennero inizialmente accolte, e la nuova giunta ricominciò ad opporre strategie dilatorie ai tavoli di trattativa con l’Unione Inquilini. Un’ampia piattaforma rivendicativa domandava ancora una volta che il sindaco filmasse un provvedimento per “l’occupazione temporanea d’urgenza per gli alloggi sfitti” a favore dei senza casa, degli sfrattati e di chi ancora risiedeva in alloggi malsani. Ottolini ricorda come allora il movimento si fosse saputo muovere “su più livelli”: aprendo una collaborazione con varie sezioni del Pci padovano, con la Cgil, ma preso accordi anche con alcune parrocchie.

“Il Mattino” del 23/10/1980

Forti di questa rete ed esasperati dalle lungaggini della trattativa politica, la mattina del 12 ottobre 1980 da alcune famiglie dei Comitati di lotta occupano una ventina di appartamenti vuoti in Via Valgimigli, nel quartiere della Guizza. La preparazione era stata meticolosa e la scelta dei palazzi da occupare precisa: si trattava di appartamenti vuoti da almeno due anni e costruiti speculando su un’area appartenuta all’Ingap (una fabbrica di giocattoli di Padova chiusa nel 1972) e posseduti dall’impresa SIEP (Società Italiana Edilizia Padovana), che si era già accordata per vendere le case ad un ente pubblico, la Cassa pensione dipendenti enti locali.

da “Storie in conflitto. Padova 1980, l’occupazione di via Valgimigli (Seize the Time)

L’ostinazione della lotta, unita ad una maggior disponibilità dell’assessore alla casa Gottardo, poi diventato sindaco nel 1982, sbloccò la trattativa in un senso favorevole agli occupanti. Nessuno venne sgomberato, e il Comune (tramite una serie acquisti e cessioni) diede in affitto con regolare contratto quegli stessi appartamenti alle famiglie, cominciando coi 40 casi indicati come più urgenti dall’Unione Inquilini. Non era affatto una conclusione scontata: nei primi anni Ottanta, moltissime occupazioni di case nella vicina Mestre e Venezia (nelle quali più attivo era il ruolo dei gruppi dell’Autonomia Operaia, e dove era al governo una giunta composta da comunisti e socialisti) si conclusero con sgomberi e arresti.

La progressiva messa in regola degli occupanti, il trasferimento della gestione delle Case minime allo Iacp locale, l’abbattimento delle casette più malridotte e la ristrutturazione delle altre, la fondazione di un Ufficio Casa comunale: tutte queste iniziative furono intraprese durante gli anni dell’amministrazione di centro-sinistra del sindaco Settimo Gottardo (1982-1987). La “vertenza Case minime-SIEP” venne dichiarata chiusa in una conferenza stampa dell’UI nel novembre 1982, nella quale si rivendicava con orgoglio la tenacia con cui si erano battuti gli inquilini dei Comitati per rivendicare i propri diritti, ma si dava credito anche alla sensibilità politica di Gottardo “nell’aver capito che il problema della casa a Padova era ormai diventato caldo”.

Se il Comune di Padova ha mantenuto per anni un ruolo di protagonista attivo, in gran parte è stato grazie alla pressione dal basso dei movimenti che imposero di dare una articolata risposta politica, non semplicemente paternalistica né poliziesca, alla cruciale questione sociale che è l’abitare. La messa in regola di chi aveva occupato e la vittoria della vertenza fu ottenuta incrociando l’uso di strumenti legali, campagne stampa, petizioni dei Consigli di quartiere, pressione ottenuta portando in spazi strategici (piazze e luoghi istituzionali) la protesta della base sociale, ma anche ricorrendo ad occupazioni di alloggi sfitti.

Con le successive giunte di centro-sinistra degli anni Novanta il patrimonio immobiliare è stato assegnato all’Ater (una delle aziende pubbliche che sono subentrate agli Iacp) e si è ulteriormente favorita la privatizzazione del patrimonio edilizio pubblico, in linea con una tendenza nazionale e internazionale che è tra i motivi principali per cui l’emergenza abitativa è oggi così grave un po’ ovunque.

Il mercato degli affitti si muove da decenni nella direzione di un generale rialzo dei prezzi che portano alla gentrificazione di interi quartieri, innanzitutto i centri storici, ed alla messa ai margini delle classi popolari e di chi si trova in condizioni di fragilità. Questo in paese in cui quasi 100.000 persone risultano senza fissa dimora (di cui quasi il 40% non di nazionalità italiana) mentre circa una casa su tre risulta vuota (9,5 milioni, seconde case incluse), e vuote vengono lasciate perfino 82.000 delle poche case popolari rimaste.

Bibliografia

Per un’analisi più estesa sia di questo episodio sia dei movimenti padovani di lotta per l’abitare, mi permetto di rimandare anche alla tesi di laurea del sottoscritto, liberamente consultabile online:

MENON Alessandro. Il diritto alla casa a Padova negli anni Settanta e Ottanta del Novecento: mobilitazioni, soggetti, desideri. A.A. 2024/25, https://hdl.handle.net/20.500.12608/83530

Bibliografia minima:

BORTOLOTTI Lando. Storia della politica edilizia in Italia, Editori, Riuniti, Roma, 1978

DALLA COSTA Mariarosa. Potere femminile e sovversione sociale, Marsilio, Padova, 1972

DAOLIO Andreina (a cura di). Le lotte per la casa in Italia. Milano, Torino, Roma, Napoli. Feltrinelli, Milano, 1974

GAINSFORTH Sarah. L’Italia senza casa. Politiche abitative per non morire di rendita. Roma-Bari: Editori Laterza, 2025.

GIARETTA Paolo, e JORI Francesco. La Padova del sindaco Crescente (1947-1970). Padova: Il poligrafo, 2017

GIORGI Chiara, PAVAN Ilaria, Storia dello Stato sociale in Italia, Il Mulino, Bologna, 2021

PERINI, Lorenza. Le case parlanti e la città muta: spunti di riflessione sulla città e l’abitare da un punto di vista di genere: Padova (1949-2014). Roma: WriteUp, 2023.

ROCHAT Giorgio, SATERIALE Giovanni, SPANO Lucia (a cura di). La casa in Italia. 1945-1980. Alle radici del potere democristiano, Zanichelli, Bologna, 1980

VENTURA, Angelo. Padova, Roma-Bari: Editori Laterza, 1989.

In copertina: foto da “Il Mattino” del 23/4/1980: “manifestazione promossa ieri pomeriggio dall’Unione Inquilini”


[1] Giorgi, Chiara, Pavan, Ilaria, Storia dello Stato sociale in Italia. Bologna: Il mulino, 2021, p.12.

[2] Scalco, Lino. Dall’edilizia popolare all’edilizia sociale: storia degli Istituti per le case popolari di Padova (1876-2008). Padova: CLEUP, 2009

[3] Ventura, Angelo. Padova, Editori Laterza: Roma- Bari 1989, p.234

[4] Perini, Lorenza. Le case parlanti e la città muta: spunti di riflessione sulla città e l’abitare da un punto di vista di genere: Padova (1949-2014). Roma: WriteUp, 2023, cap.1

[5] Ivi, p.26

[6] Giaretta, Paolo, e Francesco Jori. La Padova del sindaco Crescente (1947-1970). Padova: Il poligrafo, 2017, p.148.

[7] Archivio storico del Comune di Padova, Verbale Consiglio Comunale, seduta straordinaria del 4/1/1950

[8] Ventura, Padova, p.376

[9] Bortolotti, Lando. Storia della politica edilizia in Italia: proprietà, imprese edili e lavori pubblici dal primo dopoguerra ad oggi (1919-1970). Roma: Editori Riuniti, 1978, p.220.

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