Menu Chiudi

Il tempo dei beni comuni: una lettera dall’Ex Macello di Padova

Riceviamo e volentieri pubblichiamo la lettera “Il tempo che scorre”, a cura della Comunità di riferimento per l’area Ex Macello di via Cornaro 1 a Padova. Una lettera che segnala la mancanza di risposte da parte del Comune di Padova non solo alla progettualità su quell’area da parte di associazioni, gruppi e individui che lavorano volontariamente in continuità con un percorso pluridecennale di uso civico di quel luogo (attento all’ambiente, all’accoglienza, alle culture locali e globalizzanti), ma anche all’offerta di coinvolgimento di una parte terza.

Una risposta purtroppo è stata data (con il cambio della serratura) all’altra dichiarazione d’uso civico e collettivo presentata al Comune di Padova per la Sala Pinelli, altro esempio emblematico di spazio rigenerato in chiave di mutuo aiuto cui si rifiuta il riconoscimento di uso civico e collettivo già in atto sostenendo un’impreparazione del Comune (ad oltre un anno dall’approvazione del regolamento comunale e dopo annunci di corsi di formazione e redazione di vademecum per i funzionari comunali).

A tal proposito, il blog della Rete Beni Comuni di Padova ha ospitato di recente il seguente commento di Nicola Capone (ricercatore, docente e attivista di Napoli, legato all’esperienza dell’Ex Asilo Filangeri):

“Sia nel Regolamento sia nelle FAQ ad esso allegate i passaggi per avviare il percorso di riconoscimento del “Diritto d’uso civico e collettivo” di uno spazio riconosciuto “bene comune”, ovvero funzionale all’esercizio dei diritti fondamentali, sono molto chiari e lineari. Il problema non è tecnico, è politico. E questo non è una novità, perché non c’è tecnica, a mio parere, che non sia politica e per inverso non c’è politica che non abbia anche aspetti tecnici. Il punto è che il “Diritto d’uso civico e collettivo” pone questioni sia tecniche che politiche, ad altissima intensità perché mette in discussione gli assetti proprietari del bene, che – nonostante la dottrina giuridica, le sentenze della Corte suprema e una consolidata prassi amministrativa – sono ancora rigidamente incardinati in una dogmatica struttura privatistica da ancien régime.

Finanche la proprietà pubblica è intrappolata dalla tecnica giuridica e politica di un diritto privato vecchio stampo che orienta amministratori e tecnici a ritenere il bene pubblico di “appartenenza” all’ente pubblico territoriale, riducendo il Comune al “solo” ruolo di “proprietario” dei beni a lui nominalmente attribuiti.

Questo clamoroso “equivoco” non tiene conto del fatto che lo schema proprietario applicato ai beni pubblici ha la funzione di garantire, da parte dell’ente, l’appartenenza collettiva del bene e gli interessi generali ad esso collegati. Per questo motivo si usa la “fictio” del titolo di proprietà: il bene è in proprietà dell’ente di riferimento perché questo si faccia garante dell’appartenenza collettiva del bene stesso. In questo senso si dice che il Comune, ad esempio, è un’ente esponenziale della comunità. Come da questo approccio si sia passati all’esproprio dei beni di appartenenza collettiva da parte degli enti pubblici sotto l’emblema di Beni pubblici è uno dei grandi inganni perpetrati a danno della democrazia costituzionale.

Tornando a noi, questa postura impedisce alla parte tecnica-dirigenziale di operare. Per quanto riguarda la parte politica c’è il grande tabù della “libera e autonoma” iniziativa dei singoli e degli associati, relativamente al tema dell’uso, della gestione e del governo dei beni pubblici.

Il tema potrebbe essere posto in questi termini: come garantire l’autonomia delle comunità di riferimento di un bene comune ad uso civico e collettivo, evitando che questa autonomia si traduca in un uso esclusivo e privatistico del bene da parte di un gruppo ristretto? Come evitare che il ruolo di garante svolto dall’ente pubblico, per tutelare l’appartenenza collettiva del bene comune e il diritto d’uso civico e collettivo, si tramuti in una forma di inibizione dell’autonoma iniziativa degli/delle abitanti, che invece dovrebbe essere costituzionalmente “favorita”? Una via, pure prevista dal Regolamento dei beni comuni di Padova, è la co-progettazione o, in ogni caso, la possibilità di avviare un processo di partecipazione pubblica volto a istituire/riconoscere, sperimentare e validare il “diritto d’uso civico e collettivo.

Al limite, in via transitoria, si potrebbe concordare un “patto di collaborazione complesso” – che io chiamerei “Patto di comunità” – che ha come oggetto proprio l’istituzione di una prassi d’uso civico e collettivo o il consolidamento di una prassi già esistente. Sarebbe un’occasione di “conflitto” altamente istruttivo, una forma animatissima di apprendimento istituzionale. Questo permetterebbe di sperimentare una forma di accesso alla città che non è scontata e richiede tanto coraggio da parte di tutti i soggetti coinvolti”.

Di seguito, il testo della lettera.
Per approfondire la storia dell’Ex Macello, qui si può leggere il documento frutto del percorso di progettazione partecipata realizzato tra il 2019 e il 2021.

Il tempo che scorre

Attendiamo da un anno. È del 15 gennaio 2020 lo sgombero dell’area dell’Ex Macello di via Cornaro 1 a Padova, motivato da ragioni di “sicurezza dello stabile” e dalla “imminente” realizzazione di un progetto di riqualificazione (finanziato dai bandi PinQua); ed è del 23 dicembre 2021 la Dichiarazione di Uso Civico e Collettivo presentata da un gruppo di cittadini (la  “Comunità di riferimento”, ai sensi del Regolamento dei Beni Comuni adottato ad Ottobre del 2021 dal Comune di Padova), alla quale l’Amministrazione Comunale non ha ancora offerto una risposta coerente alle procedure previste dal regolamento stesso, né ha affrontato il fatto che ad alcune delle associazioni partecipanti rimangono intestate le bollette delle utenze dell’area.

Attendiamo da 9 mesi. Tanti ne sono passati dalla lettera del 31 marzo 2021 poi ribadita da comunicazione tramite PEC il 30 giugno 2021 in cui, in assenza di riscontri sulla Dichiarazione proponevamo (e proponiamo) di “coinvolgere una parte terza che possa assicurare i requisiti di trasparenza e qualità necessari a stabilire relazioni collaborative e durature fra il Comune e la comunità di riferimento (…) i requisiti più indicati per tale figura potrebbero corrispondere all’esperienza maturata da una persona come Sergio Lironi di cui sono note le conoscenze e competenze in ambito urbanistico e di processi di coinvolgimento dei diversi attori territoriali”. 

Nel frattempo abbiamo continuato a cercare di far vivere quell’area, con mostre, visite, assemblee e concerti, in linea con la vocazione assunta da metà degli anni ‘70 in poi di spazio di incontro di chi ha a cuore la cultura, la documentazione e l’espressione artistica, il rapporto col territorio e l’educazione ambientale, l’accoglienza e gli scambi culturali: un esempio vivo e generativo di uso civico e collettivo, aperto a tutta la cittadinanza, un laboratorio, ante litteram, di produzione culturale, storica, scientifica, tecnologica “dal basso” e grazie al contributo gratuito di persone e organizzazioni. 

Ma tre anni fa l’Amministrazione Comunale decideva che quello spazio sarebbe stato destinato ad altro (Museo della scienza, secondo le dichiarazioni dell’Assessore Colasio ai giornali) e ad altri soggetti, privati, che ne avrebbero avuto una assegnazione di fatto esclusiva, per la gestione di attività che avrebbero prodotto reddito. 

Oggi la Comunità di riferimento dell’Ex Macello propone una duplice riflessione che ha a che fare con la “cultura” amministrativa praticata in questa città ormai da anni. 

La prima riflessione ha a che fare con il “rispetto” delle regole amministrative che, lungi dall’essere un aspetto solo formale, costituisce un aspetto sostanziale, di attenzione e rispetto delle esigenze e delle richieste della comunità (di cui l’ente comunale è a disposizione ed al servizio).

La seconda riflessione ha a che fare con il senso che avrebbe per Padova la promozione di una cultura dell’uso civico e collettivo dei beni comuni, piuttosto che la promozione di una cultura dei beni del Comune. 

È ormai noto ai più che, per poter garantire una Amministrazione trasparente, la Pubblica Amministrazione ha il dovere (in alcuni casi), l’opportunità o la scelta (in altri casi), di offrire riscontro alle segnalazioni/richieste/osservazioni di cittadine e cittadini, giunte a mezzo di comunicazione “formale” (la PEC, posta elettronica certificata). Presentata la Dichiarazione di Uso civico e collettivo in data 23 dicembre 2021, secondo le modalità previste dal Regolamento Beni Comuni, una prima risposta è giunta alla Comunità di riferimento dell’Ex Macello il 18 gennaio 2022. Una risposta che accennava ad un progetto pre-esistente sull’area (che nessuno ha mai potuto visionare, e comunque successivo alla proposta di co-progettazione che è stata presentata a più riprese, e anche attraverso incontri dedicati, agli Uffici Comunali sin dal 2018 da una serie di associazioni che hanno abitato e vissuto l’area fino al giorno dello sgombero); una risposta che non si esprimeva né sulla adeguatezza della “nostra” Dichiarazione di uso civico e collettivo rispetto alle previsioni del Regolamento, né sulla possibilità di applicare all’area quanto previsto dal Regolamento stesso (ossia, quando un bene è individuato come “bene comune” da una comunità di riferimento ma non è allo stesso modo considerato dall’Ente Comunale, allora la possibilità di inserire quel bene nell’elenco dei beni comuni riconosciuto anche dall’Ente deve passare attraverso una delibera di Giunta). Ad oggi non abbiamo ottenuto alcuna risposta. 

Ed eccoci alla seconda riflessione. A cosa servono i Beni Comuni? A cosa serve promuovere e praticare una cultura dell’uso civico e collettivo dei beni comuni? Non “serve” a nulla. La cultura dell’uso civico e collettivo dei beni comuni non è serva di nessuna posizione; vuole essere il riconoscimento della responsabilizzazione, delle competenze messe a disposizione a titolo di “servizio” da parte delle cittadine e dei cittadini verso il territorio che abitano. È il riconoscimento che creare spazi in cui le regole non siano pre-esistenti alla comunità, ma generate da chi gli spazi li abita senza “pre-giudizi”, e nel rispetto di principi comuni, possa offrire alle persone più opportunità per esprimersi, per stare bene, per uscire da una condizione di marginalizzazione (sì, anche questo) a cui le regole di contesto e i costi di alcuni contesti possono portare. 

Ragionare in termini di “uso civico e collettivo dei beni comuni” non solo non contraddice il principio per cui ciò che è Comune è anche del Comune, ma avvalora e offre all’Istituzione una leva di riconoscimento e legittimazione da parte dei cittadini e delle cittadine che nessuna altra forma di amministrazione condivisa può generare con la stessa potenza.

Leggi anche: